Searle ritiene di aver risolto il millenario problema del rapporto mente-corpo, posizionandosi all'interno di una prospettiva che egli definisce "naturalismo biologico", così da sfuggire, da una parte, ai limiti del materialismo e, dall'altra, al dualismo di stampo cartesiano. Il problema mente-corpo è, in estrema sintesi, quello di render conto come da eventi fisici, quali sono quelli che si verificano nei neuroni cerebrali, si possa giungere a esperienze coscienti, vissute da una specifica soggettività; e, reciprocamente, nel presupposto che la volontà non costituisca un'illusione, come sia possibile che un fenomeno che si manifesta a livello soggettivo produca degli effetti osservabili nel mondo fisico.
Secondo Searle, tale problema può essere superato in maniera soddisfacente se si assume che tutti i nostri stati coscienti non sono altro che caratteristiche di livello superiore prodotte dai processi nervosi che hanno luogo nelle diverse aree cerebrali: processi, questi ultimi, da considerare come collocati a un livello inferiore (1). Non esisterebbero pertanto due distinti domini di fenomeni, bensì modi diversi di presentarsi di uno stesso fenomeno, a seconda della prospettiva da cui esso viene osservato. Su questo, Searle è piuttosto esplicito. Ecco quel che scrive in proposito: «Il fatto che i poteri causali della coscienza e quelli della sua base neuronale siano esattamente gli stessi, mostra che non stiamo parlando di due cose diverse, la coscienza e processi neuronali. [...] I poteri causali della coscienza sono esattamente gli stessi del sostrato neuronale. [...] Non stiamo parlando di due entità diverse, ma dello stesso sistema a livelli divers» (2). E ancora: «Non ci sono, in termini causali, due fenomeni indipendenti quali lo sforzo cosciente e l'attivazione neuronale non cosciente. Non c'è che il sistema cerebrale, che ha un livello di descrizione in cui ciò che avviene è un'attivazione neuronale e un altro livello di descrizione, quello sistemico, in cui il sistema è cosciente». (3)
Il rapporto tra mente e cervello consisterebbe in definitiva in una sorta di corrispondenza tra processi nervosi cerebrali ed esperienze soggettive, dove il presentarsi degli uni o delle altre sarebbe soltanto una questione di una differente prospettiva osservazionale adottata. Aver sottolineato questa identità tra apparenze fenomeniche diverse permetterebbe di gettare nuova luce sul problema mente-corpo, prospettiva riassunta, dallo stesso Searle, nei seguenti termini: «I processi di livello inferiore del cervello causano il mio stato cosciente presente, ma questo stato non è un'entità separata dal mio cervello; esso è semplicemente una caratteristica del mio cervello al tempo presente. Questa analisi - che i processi del cervello causano la coscienza, ma che la coscienza è essa stessa una caratteristica del cervello - ci fornisce [...] una soluzione al tradizionale problema mente-corpo, una soluzione che evita sia il dualismo sia il materialismo, almeno nel senso in cui questi vengono tradizionalmente concepiti». (4)
Fin qui la posizione di Searle non sembra differenziarsi significativamente dalle teorie dell'identità classiche, così come prospettate da autori come David M. Armstrong, Ullin Place e John Smart (5), per le quali tutte le proprietà della mente sono riducibili completamente alle proprietà del cervello. Tuttavia, tali autori si muovono su uno sfondo decisamente fisicalista, mentre Searle dichiara di rifiutare il materialismo, e con esso qualsiasi concezione che tenda ad assimilare la mente a un calcolatore. Egli si mostra, infatti, disponibile ad accogliere almeno in parte le diverse critiche antiriduzionistiche, sollevate in particolare da Thomas Nagel, Franck Jackson e Saul Kripke (6). Tale orientamento lo conduce a tentare una improbabile conciliazione tra le istanze del mondo vissuto a livello soggettivo e quelle della ordinaria visione scientifica che vede nella coscienza null'altro che un prodotto dei processi cerebrali. Così, pur tenendo ferma la tesi che le esperienze coscienti sono causate interamente dall'attività del cervello e pur ammettendo che esse non rappresentano qualcosa che "va al di là" dei fenomeni neurobiologici (7), egli pretende di far valere il principio della non riducibilità ontologica della coscienza al piano della realtà fisica: un principio del tutto incompatibile con le tesi precedenti.
Perché dalle argomentazioni sviluppate da Searle sembra invece che tale principio abbia una qualche plausibilità?
Se esaminiamo con attenzione le argomentazioni con le quali il filosofo inglese espone le sue tesi, vediamo che egli non si sofferma mai ad esaminare congiuntamente gli aspetti della realtà fisica e quelli della mente che apparirebbero inevitabilmente in conflitto tra di loro. Egli mantiene in qualche modo separati i due domini di fenomeni, o almeno evita di prendere in considerazione le conseguenze più dirompenti che emergerebbero qualora si prestasse attenzione alle loro principali implicazioni: da una parte sviluppa la prospettiva della stretta dipendenza, anzi della coincidenza tra esperienze coscienti e processi cerebrali, dall'altra, rivolge la propria attenzione sul versante della soggettività e si adopera per mettere in evidenza come i fenomeni coscienti si manifestino esclusivamente nella dimensione soggettiva degli individui e come la coscienza non possa essere rilevata per mezzo degli ordinari metodi oggettivi utilizzati dalla scienza. La sua conclusione, a questo punto, appare pienamente condivisibile: «La coscienza ha un'ontologia in prima persona o soggettiva e quindi non può essere ridotta a nessuna cosa che presenti un'ontologia in terza persona o oggettiva. [...] Ciò che intendo dire affermando che la coscienza ha un'ontologia in prima persona è che i cervelli biologici presentano una notevole capacità di produrre esperienze, e queste esperienze esistono soltanto quando vengono provate da agenti animali o umani» (8).
Nel suo sforzo di dimostrare quanto la realtà della coscienza sia lontana dagli ordinari oggetti e fenomeni fisici del mondo (da cui l'irriducibilità ontologica), Searle sottolinea anche un altro fattore importante di differenziazione: quando si parla di coscienza non vale più neppure la tradizionale distinzione tra apparenza e realtà, poiché tutto ciò che si presenta, di istante in istante, nel campo di una specifica soggettività costituisce per sua stessa natura la realtà dell'esperienza. In altri termini, nella coscienza, realtà e apparenza coincidono completamente. (9)
Le considerazioni con le quali Searle sottolinea la radicale peculiarità della coscienza rispetto al mondo dei fenomeni fisici ordinari sono difficilmente contestabili, specie da parte di coloro che si ritengono insoddisfatti dalle modalità riduzionistiche di affrontare lo studio della mente e avvertono l'esigenza di una rivalutazione dell'esperienza cosciente. Ma questo "consenso" che egli raccoglie nell'evidenziare gli elementi di irriducibilità della coscienza alle proprietà della realtà fisica, non deve far dimenticare che lo stesso Searle difende una concezione in cui la coscienza viene considerata un mero prodotto dei processi cerebrali: le due prospettive, abbastanza plausibili se considerate separatamente, si rivelano assolutamente incompatibili se messe a confronto.
In cosa consiste, in estrema sintesi, la soluzione data da Searle al tradizionale problema mente-corpo?
Sostanzialmente in questo: aver aggiunto, a una concezione prettamente fisicalista della coscienza, una nozione del tutto artificiosa e arbitraria, vale a dire l'irriducibilità ontologica della coscienza al mondo fisico. Da un lato abbiamo una nuova versione della teoria dell'identità, per la quale la coscienza non è altro che l'attività del cervello considerata a un livello più elevato; dall'altro lato abbiamo un assunto ulteriore, ma incompatibile con la prospettiva precedente, per il quale la coscienza non è riducibile ai processi cerebrali.
Ci troviamo così davanti a una vera e propria contraddizione. Primo termine: la coscienza è il risultato dell'attività nervosa del cervello, nel senso che tale risultato non è nulla di più rispetto a tale processo, anzi è lo stesso processo visto da una prospettiva superiore; secondo termine: la coscienza è ontologicamente distinta dal processo che l'ha generata (o forse, si dovrebbe dire, con il quale si identifica).
Per cogliere in tutta la sua assurdità la proposta di Searle, è necessario rendersi conto che, se la coscienza è la stessa cosa dei fenomeni cerebrali e di conseguenza le differenze rilevate dipendono dal livello in cui si pone l'osservatore, allora tali differenze non possono essere oggettive, cioè appartenenti alla realtà degli stessi fenomeni. Se la mente e il funzionamento del cervello rappresentano soltanto modalità diverse di presentarsi di uno stesso fenomeno, a seconda dell'angolo visuale da cui ci si pone, dette modalità dipendono strettamente dall'osservatore e vanno pertanto considerate soggettive.
Ma se è così, ne consegue che l'affermazione secondo la quale la coscienza sarebbe "ontologicamente irriducibile" all'attività cerebrale diventa velleitaria e priva di qualsiasi fondamento. Non esiste infatti alcun senso razionalmente accettabile per cui, sviluppando coerentemente la concezione di Searle, la coscienza possa essere considerata qualcosa di diverso dai processi nervosi con i quali, del resto, essa viene esplicitamente identificata.
Vediamo, in definitiva, che il problema mente-corpo, consistente precisamente nell'esigenza di conciliare il mondo dell'esperienza cosciente con quello dei fenomeni fisici, viene affrontato da Searle tramite un artificio assai discutibile: unendo forzosamente i due termini maggiormente in conflitto grazie a una formulazione ambigua che, non solo non risolve alcun problema, ma rischia di alimentare la falsa convinzione che sia sufficiente qualche marginale ritocco per giungere a una teoria della mente soddisfacente.
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NOTE
(1) John Searle, La riscoperta della mente, Boringhieri, Torino, 1992, pag. 30; John Searle, "Libero arbitrio e neurobiologia", in Id., Libertà e neurobiologia. Riflessioni sul libero arbitrio, il linguaggio e il potere politico, Bruno Mondadori, Milano, 2005, pag. 7, pag. 32 e pag. 43
(2) John Searle, La mente, Raffaello Cortina, Milano, 2006, pag. 115
(3) Op. cit., pag. 189
(4) John Searle, Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, Milano, 1997, pag. 5; cfr. anche John Searle, La riscoperta della mente, cit., pag. 17
(5) David M. Armstrong, "The Nature of Mind", in Arts: Proceedings of the Sydney University Arts Association, III, 1966, pagg. 37-48; trad. it. "La natura della mente", in Armando De Palma, G. Pareti (a cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pagg. 46-62; Ullin T. Place, "Is Consciouness a Brain Process?", in British Journal of Philosophy, XLVII, 1956, pagg. 44-50; rist. in V. C. Chappell (a cura di), The Philosophy of Mind, 1962, pagg. 101-109; John Smart, "Sensations and Brain Processes", in Philosophical Review, LXVIII, 1959, pagg. 141-56; trad. it. "Sensazioni e processi cerebrali", in Armando De Palma, G. Pareti, op. cit., pagg. 27-45.
(6) John Searle, La riscoperta della mente, cit., pagg. 132-3.
(7) John Searle, La mente, cit., pag. 103
(8) John Searle, Il mistero della coscienza, cit., pag. 176. Cfr. anche John Searle, La riscoperta della mente, cit., pag. 132 e sgg.; "Libero arbitrio e neurobiologia", cit., pag. 21.
(9) John Searle, La riscoperta della mente, cit., pag. 137.
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