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La nascita della coscienza
di Astro Calisi
La percezione come coscienza elementare
La sensazione può essere considerata il primo passo per l'affrancamento degli esseri viventi dal rigido determinismo della materia inanimata. Se un qualsiasi stimolo fosse capace di attivare immediatamente e automaticamente una risposta appropriata, non ci sarebbe bisogno che lo stimolo stesso si "rendesse presente" all'individuo sotto forma di sensazione.
La sensazione, in ultima analisi, non è altro che un travestimento, un abito che una data sollecitazione assume per portarsi al livello del soggetto. Questa presenza al soggetto che percepisce è precisamente ciò che si definisce coscienza, con riferimento a specifici dati sensoriali o percettivi.
Ci sono, naturalmente, diversi livelli di consapevolezza. Meglio ancora, si può parlare di un continuum che va dal massimo grado di consapevolezza, corrispondente a quello dell'oggetto posto al centro della nostra attenzione, fino agli estremi limiti periferici che costituiscono il confine con la non-coscienza.
Io, che in questo momento leggo, posso non essere consapevole di tante sollecitazioni che comunque agiscono su di me - la pressione della sedia sui miei glutei, il rumore delle automobili che passano nella strada sottostante, l'abbaiare di un cane in lontananza. A me sembra di non avere percezione di questi oggetti; in realtà essi sono presenti alla mia coscienza, ma in maniera marginale, attenuata, rispetto ai contenuti situati in primo piano. Basta un semplice atto di volontà, senza che io debba compiere il minimo movimento col mio corpo, per indirizzare l'attenzione verso uno qualsiasi di tali oggetti. Ecco, che riesco a percepire la presenza della sedia sotto di me, il rumore delle automobili, l'abbaiare del cane, ecc.
Il campo degli oggetti accessibili alla coscienza in un determinato istante ha molte analogie col campo visivo dell'occhio. Riguardo a quest'ultimo, il più elevato grado di nitidezza della visione si ha nel punto esatto in cui lo sguardo concentra la propria attenzione. Tale punto corrisponde, a livello di retina, a quel particolare dell'immagine che si forma nella zona di massima concentrazione di cellule sensibili alla luce (fovea).
Ci sono in genere, a parte l'oggetto che occupa il fuoco centrale della visione, molti altri oggetti collocati in posizioni più periferiche rispetto ad esso. Tali oggetti vengono percepiti in maniera via via meno nitida man mano che ci si allontana dal centro dell'immagine. A volte, soprattutto quando lo sguardo rimane per qualche tempo fisso su un determinato punto, sembrerebbe che essi escano addirittura dal nostro campo visivo, tanto la relativa percezione diventa debole.
Ma tali oggetti sono veramente scomparsi dalla nostra visione?
Per convincersi che non è così, e cioè che essi continuano ad essere presenti, sia pur a livelli quasi subliminali, è sufficiente osservare che se uno di questi oggetti subisce una qualche modificazione, esso tende nuovamente a imporsi alla nostra attenzione. Se l'oggetto si sposta rispetto agli altri oggetti (non necessariamente nella direzione corrispondente a una maggiore sensibilità visiva), se muta le proprie dimensioni o grado di luminosità, anche nel senso di una diminuzione, esso tornerà ad occupare il suo posto fra gli oggetti per noi visibili. Ciò significa che esso era percepibile anche in precedenza; in caso contrario non avremmo potuto rilevare la sua modificazione.
Lo stesso fenomeno si verifica per tutte le altre forme di percezione, sia che si riferiscano a eventi esterni al nostro corpo che a quelli interni. Persino un dolore di una certa intensità può a poco a poco allontanarsi dal centro della nostra coscienza e divenire sempre più sfumato e impercettibile se ci occupiamo d'altro. Ma esso è tuttavia presente ai margini della consapevolezza, sempre pronto a portarsi in posizione dominante qualora noi riportiamo su di esso la nostra attenzione.
I meccanismi ora descritti hanno un loro preciso significato in rapporto alla conservazione dell'individuo: oggettivamente sono assai più importanti gli aspetti dell'ambiente e dell'organismo che variano, perché possono rendere necessario un intervento attivo da parte dell'organismo stesso, piuttosto che quelli che rimangono inalterati. La percezione è dunque sensitività cosciente, modalità soggettiva con cui tutto ciò che è esterno rispetto all'essere percipiente si rende accessibile ad esso.
Coscienza e adattamento
Ogni organismo può attingere dati sul mondo esterno e su se stesso anche senza saperlo, senza esserne consapevole. A livello fisiologico, nell'animale come nell'uomo, molti meccanismi operano ordinariamente al di fuori della portata della coscienza e quindi della possibilità di un controllo volontario. Si tratta per lo più di regolazioni automatiche che l'organismo effettua al mutare di determinate condizioni interne o esterne, al fine di mantenere il proprio equilibrio (omeostasi). Oggetto di tali regolazioni sono, ad esempio, la pressione sanguigna, il ritmo cardiaco, la temperatura del corpo, il diametro della pupilla oculare, ecc.
Per ognuno di questi meccanismi esiste ovviamente almeno un sistema di rilevamento, di misura, diretto ai fattori sotto controllo: un certo grado di sensibilità specifica, le cui informazioni non giungono però fino al livello della consapevolezza. Esse arrivano, più o meno indirettamente, agli organi destinati a dare la risposta, senza passare per i centri della corteccia cerebrale, ossia quella parte del cervello che, almeno nell'uomo, si considera strettamente in relazione con le funzioni mentali superiori e con la coscienza. Ciò significa che detti centri non intervengono nel controllo delle risposte che, eventualmente, ne conseguono. Anzi, spesso essi non ricevono alcuna informazione in merito, neppure ad azione avvenuta. L'individuo - il soggetto - è come tagliato fuori da simili processi, che si svolgono a sua insaputa, automaticamente, al di sotto della percezione cosciente.
Anche alcuni comportamenti appresi consapevolmente, quindi non geneticamente determinati, possono divenire poco per volta automatici e attivarsi al di fuori del controllo volontario e consapevole. Una persona che impara a guidare l'automobile deve inizialmente concentrare la propria attenzione sui singoli comandi, nonché sulle diverse sequenze di avviamento, arresto, sorpasso, ecc. Essa è costretta a riflettere su ogni operazione da compiere; è incerta sul come utilizzare i vari dati raccolti istante per istante dagli organi dei sensi: i suoi movimenti sono necessariamente lenti e imprecisi. In seguito, le diverse procedure verranno progressivamente memorizzate, divenendo sempre più automatiche, per cui la guida si farà via via più rapida ed efficiente.
Ad un certo grado di apprendimento, il conducente, trovandosi improvvisamente davanti a un ostacolo, non avrà bisogno di alcun calcolo mentale cosciente per pigiare risolutamente il pedale del freno. Questo comportamento scaturirà in maniera automatica, indipendentemente dalla sua volontà: si può dire che lo stimolo fisico esterno - l'ostacolo percepito visivamente - è divenuto capace di produrre un'azione scavalcando la consapevolezza e la volontà dell'individuo. Solo successivamente, questi potrà fare delle considerazioni in proposito, valutare se l'azione è stata appropriata alla situazione, ecc. Ma questa capacità critica, di rivedere passo passo il comportamento già posto in atto, non toglie nulla al fatto che esso si sia attivato in maniera autonoma rispetto alla sua volontà cosciente.
La riflessione razionale può, tutto sommato, risultare controproducente in molti casi, soprattutto quando la rapidità della risposta costituisce un requisito fondamentale. In tali circostanze, la reazione automatica è più efficiente, anche se più meccanica, stereotipata, incapace di adattarsi alle diverse situazioni dell'ambiente.
In linea generale, si può dire che i comportamenti automatici, sia innati che appresi, si rivelano particolarmente adatti là dove sono richieste azioni tempestive e scarsamente flessibili. Detti comportamenti, attivandosi spontaneamente, senza il bisogno di un controllo consapevole, permettono inoltre all'individuo di concentrare la propria attenzione su azioni più complesse e plastiche, che non potrebbero essere svolte con successo da meccanismi automatici.
Un aumento di luminosità richiede sempre lo stesso tipo di risposta da parte dell'iride dell'occhio (cioè una contrazione diretta a restringere il diametro della pupilla); perciò non è necessario che tale processo sia controllato volontariamente. Altrettanto non si può dire per quelle sollecitazioni che richiedono comportamenti assai più elaborati, tipici degli animali più evoluti, e in particolare dell'uomo. Ad esempio, una carenza di sostanze nutritive non può essere compensata soltanto mediante aggiustamenti all'interno dell'organismo. E' necessaria un'azione complessa nell'ambiente, che tenga in considerazione un gran numero di fattori di rilevanza diversa. Per questo motivo, tale carenza deve tradursi in sensazione (fame), cioè deve divenire consapevole.
Considerazioni filosofiche sulla coscienza
Se ci si sposta a ritroso lungo la scala evolutiva, troviamo che i meccanismi automatici innati vengono a costituire una componente sempre più ampia nel comportamento complessivo degli esseri viventi. Sembrerebbe più che lecito ipotizzare che, scendendo al disotto di un certo limite, tutti i comportamenti vengano attivati in maniera automatica.
Un organismo collocato a tale livello della scala evolutiva, sarebbe incapace di percepire alcunché riguardo al mondo esterno e a se stesso. Non avrebbe esperienza. Non agirebbe nel pieno senso della parola, vale a dire come "attore"; più propriamente "sarebbe agito" da meccanismi fisiologici più o meno complessi, dotati della capacità di rispondere direttamente alle diverse sollecitazioni secondo sequenze prefissate.
In un organismo così concepito, la coscienza, la capacità di "sentire" nel senso più ampio, la capacità di sperimentare su di sé, sia pur limitata a stimoli fisici elementari, non svolgerebbe alcun ruolo. Anzi, essa costituirebbe un'aggiunta inutile, un elemento di disturbo, che la selezione naturale si incaricherebbe di eliminare nell'arco di poche generazioni.
E' incredibile come la quasi totalità degli studiosi che si sono occupati di teorie evoluzionistiche abbiano praticamente ignorato il problema della nascita della coscienza.
La spiegazione va forse ricercata nelle difficoltà che s'incontrano a ricondurre tale problematica all'interno delle metodologie consolidate, che ha fatto sì che, per diverse decine di anni, il tema ella coscienza fosse considerato un argomento quasi tabù dalla maggioranza degli scienziati.
A meno che non si voglia sostenere (come qualcuno ha già fatto) che la coscienza che accompagna la sensazione, costituisca solo un epifenomeno, una qualità non prevista, non necessaria, che sorge spontaneamente e inevitabilmente quando si raggiunga un certo grado di complessità nelle strutture nervose.
Da un punto di vista strettamente fisiologico, semplificando al massimo, potremmo dire che il meccanismo riflesso corrisponde al caso di un neurone sensoriale che si collega direttamente a un neurone effettore. Se a questi si interpongono uno o più neuroni di elaborazione, la risposta allo stimolo non sarà più automatica (e stereotipata), ma dipenderà anche dallo stato dei neuroni mediatori, i quali pongono in relazione la risposta stessa con altri tipi di sollecitazioni provenienti da altre zone dell'organismo. Per rendere la risposta ancora più flessibile, è necessario che essa venga governata da un sistema centrale, in grado di elaborare un gran numero di informazioni e di coordinare tra loro, in maniera sinergica, più azioni contemporaneamente.
Ma, a dispetto di queste considerazioni neurologiche, riesce un po' difficile immaginare l'esistenza di esseri animati, sia pur scarsamente evoluti, che non siano in grado di provare alcun tipo di dolore, di piacere, o qualsiasi altra sensazione elementare come fame, sazietà, freddo, caldo, contatto, luce, vibrazioni...
Una mosca a cui venga amputata una zampa, o un lombrico messo a essiccare al sole, avvertono una qualche "sensazione" che possa in qualche modo essere definita spiacevole, anche lontanamente assimilabile al dolore, oppure le loro reazioni sono puramente meccaniche, come potrebbero esserlo quelle di una qualsiasi macchina cibernetica, programmata per compiere determinate azioni sotto l'azione di stimoli opportuni?
E se si da per valida la prima alternativa, può essa venir ragionevolmente estesa a livelli ancor più elementari della vita?
Un batterio che si dirige verso la zona di maggior concentrazione di glucosio, o un virus che s'insedia nella cellula che dovrà ospitarlo, lo fanno "partecipando" in qualche maniera alla loro azione, percependo, sia pure in modo estremamente vago e diffuso certe proprietà dell'ambiente, oppure sotto la spinta di forze cieche, deterministiche, in tutto simili a quelle che muovono i corpi inanimati?
Se il comportamento è completamente automatico, a che serve la sensazione?
Perché l'organismo dovrebbe "provare" qualcosa se la risposta che scaturisce dalla sollecitazione è fissata rigidamente, ossia è inscritta a livello della struttura biologica dell'organismo stesso, e non può essere modificata?
Rispondere a queste domande, seriamente, senza tentare scappatoie o sotterfugi di tipo terminologico/concettuale, significa muovere i primi passi verso una teoria della coscienza coerente con la prospettiva evoluzionistica e probabilmente più soddisfacente di tutte quelle proposte finora.
[1985]
[ Scheda dell'autore -
Email: astrocalisi@gmail.com ]
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