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Daniel Dennett e la coscienza come automonitoraggio
di Astro Calisi
Nell'opera L'evoluzione della libertà (1), Daniel Dennett ci invita a considerare la coscienza di sé, che contraddistingue gli esseri umani, come una sorta di monitoraggio che il sistema cerebrale compie su se stesso. Gli animali non avrebbero bisogno di sviluppare alcuna capacità di automonitoraggio, poiché i processi nervosi che si svolgono al loro interno sono ancora relativamente semplici e funzionano abbastanza bene "al buio", senza la necessità che vengano osservati da qualcuno: "Per quanto le facoltà discriminatorie di un animale possano essere "cognitive", la capacità dei loro risultati di causare la selezione di comportamenti appropriati non ha bisogno di essere sperimentata da niente e da nessuno". (2)
Possono servire dei meccanismi di controllo per verificare che le azioni intraprese vadano a buon fine, ma questo tipo di controlli, come avviene anche per molte funzioni omeostatiche (temperatura corporea, concentrazione salina nel sangue, battito cardiaco, ecc.) può essere svolto, secondo Dennett, in maniera del tutto automatica e non cosciente. Con l'aumentare delle opzioni di comportamento, il valore di un ordine interno può tuttavia diventare qualcosa di "apprezzato" dalla selezione naturale. (3)
Di particolare importanza assume, in questa ottica, lo sviluppo di apparati in grado di valutare i possibili esiti delle opzioni di maggior interesse prima della effettiva decisione. Questa capacità di previsione costituisce un notevole progresso rispetto alla semplice attività fondata sul procedimento per tentativi ed errori. (4)
La valutazione dei probabili esiti di un'azione è importante, ma la rappresentazione stessa del processo di valutazione, per Dennett, è ancora più importante. Anche un programma computerizzato per il gioco degli scacchi esamina milioni di mosse, valutando il loro possibile esito e scegliendo la mossa che si presenta più vantaggiosa alla luce dei parametri di giudizio di cui è stato fornito, ma lo fa del tutto meccanicamente, senza la minima consapevolezza. Dennett ipotizza che il passaggio dalla valutazione automatica a un tipo di valutazione informata, "consapevole di sé", si sia sviluppato in seguito alla nascita del linguaggio, che ha reso possibile comunicare ad altri non solo i risultati delle proprie azioni, ma anche le valutazioni che le hanno precedute. (5)
In tale ottica, le parole sarebbero in un certo senso paragonabili alle icone che compaiono sui monitor dei comuni computer. Esse sono state ideate per semplificare l'attività degli operatori umani: invece che essere costretti a digitare un gran numero di codici per far sì che la macchina esegua determinate operazioni, i programmatori hanno cercato di rendere più facile la vita agli utenti rappresentando i comandi sotto forma di immagini che debbono essere solo cliccate o trasportate col mouse. In modo analogo, le persone utilizzano le parole - simboli che sintetizzano contenuti e significati - per comunicare con i loro simili. Anche la rappresentazione del sé, l'autocoscienza, non sarebbe altro che un'immagine semplificata della nostra attività di valutazione e di pianificazione interna, così da poter essere trasmessa facilmente ai nostri simili. (6)
Bisogna riconoscere che l'idea di considerare la coscienza come una sorta di rappresentazione che il sistema fa di se stesso e della propria attività non manca di un certo fascino, anche se essa non è certo nuova (7). Purtroppo tale idea, anche se a prima vista plausibile, è insostenibile da un punto di vista logico. Essa deriva da un tipico "errore antropomorfico", consistente nel paragonare la situazione della coscienza a quella di un essere umano posto di fronte al monitor di un computer.
Ma l'uomo e la macchina sono due sistemi distinti, dotati ognuno di una propria organizzazione interna, che comunicano tra loro soltanto attraverso interfacce (tra cui il monitor). Nel caso dell'uomo e della coscienza, visto che nella prospettiva di Dennett le rappresentazioni di quest'ultima non sono altro che un mero prodotto dell'attività del cervello, si sta parlando necessariamente di uno stesso fenomeno. Ora, come può accadere che le esperienze coscienti - risultato di processi altamente coordinati che si svolgono nei neuroni cerebrali - siano portatrici di informazioni che non fossero già in possesso del sistema?
Si tratta di un'impossibilità logica, per la quale nessun sistema può dar luogo a risultati il cui contenuto informativo sia superiore (o più ampio) di quello posseduto dal sistema stesso. In sostanza, se la coscienza è un prodotto di un certo numero di aree nervose, allora essa non può dare nulla di più di quanto non fosse già disponibile, in una qualche forma, in dette aree: quindi non ci può essere alcun monitoraggio della coscienza sull'attività cerebrale.
In quanto alla tesi che la coscienza sia sorta per consentire di comunicare ad altri ciò che avviene dentro di noi, si può replicare con le seguenti osservazioni critiche:
1) La coscienza di sé è solo l'espressione più evoluta di un fenomeno ben più generale, comprendete anche l'esperienza cosciente che accompagna la maggior parte dell'attività sensoriale e percettiva. Detta forma di coscienza, essendo propria anche di molte specie animali (almeno quelle a noi più vicine nella scala evolutiva) è sicuramente di gran lunga anteriore alla comparsa del linguaggio, e quindi della necessità di mettere al corrente gli altri dei propri processi interni.
2) Tale tesi non spiega perché mai il monitoraggio di ciò che accade dentro di noi debba avvenire sotto forma di esperienze coscienti anziché per mezzo di semplici rilevazioni impersonali. Anche un computer è capace di analizzare una data situazione complessa, interna o esterna a sé, tramite adeguati criteri algoritmici, e di comunicare i risultati agli utilizzatori in maniera semplificata, sotto forma di grafici, tabelle numeriche, brevi descrizioni testuali. Lo fa però in maniera del tutto automatica, essendo privo di qualsiasi consapevolezza. La rappresentazione cosciente del proprio stato interno non è necessaria al computer per far conoscere all'esterno lo stato di avanzamento dei compiti in svolgimento, la quantità di memoria occupata e addirittura l'esistenza di eventuali file danneggiati.
Il tentativo di Dennett di riconoscere un ruolo alla coscienza costituisce in ogni caso un notevole progresso rispetto alle sue posizioni di qualche anno addietro, quando egli sottolineava la totale incapacità delle esperienze coscienti nell'offrirci indicazioni affidabili sui processi cerebrali, al punto di affermare che era preferibile operare come se esse non esistessero affatto (8). Questa maggiore disponibilità nei confronti della coscienza è senza dubbio il risultato della continua pressione esercitata dalle innumerevoli critiche antiriduzionistiche a lui rivolte. Ma, a tale apertura di pura facciata, non corrisponde alcun mutamento significativo nella sua concezione complessiva, che rimane irrimediabilmente materialista e funzionalista. All'interno di una prospettiva del genere, alla coscienza non può venire riconosciuta alcuna funzione, riducendosi essa a un mero epifenomeno, e in quanto tale priva di qualsiasi capacità di influire sul comportamento.
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NOTE
(1) Daniel Dennett, L'evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano, 2004.
(2) Op. cit., pag. 329.
(3) Ivi.
(4) Op. cit., pag. 330. L'idea che tutti gli organismi viventi, "dall'ameba a Einstein", affrontino i loro problemi tramite un procedimento per tentativi ed errori si deve a Karl Popper. Egli precisa che l'uomo può applicare tale procedimento in maniera assai più sofisticata ed efficiente: attuandolo a livello ideale e facendo in modo che le idee errate vengano eliminate al suo posto. (Karl Popper, Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico, Armando, Roma, 1975, pagg. 346-7).
(5) Daniel Dennett, Op. cit., pag. 331.
(6) Op. cit. pagg. 331-2.
(7) Cfr., ad esempio, William Lycan, Cosciousness and Experience, MIT Press, Cambridge, 1996; Fred Dretzke, Naturalizing the Mind, MIT Press, Cambridge, 1995. Una versione recentissima della coscienza come monitoraggio viene suggerita dal neuroscienziato Antonio Damasio, il quale ipotizza che la forma della rappresentazione mentale potrebbe permettere l'integrazione dei diversi stimoli sensoriali con altre immagini fornite dalla memoria, così da condurre a una visione globale dello stato dell'organismo (Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Adelphi, Milano, 2003, pag. 249-250).
(8) Daniel Dennett, "Quainare i qualia" [1988], in Armando De Palma - Germana Pareti (a cura di) Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pag. 193.
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