Le forme più elementari di coscienza sono quelle legate solitamente alle sensazioni e alle percezioni. Si può dire che esse rappresentino il primo passo gradino della "presenza all'essere", che è la vera essenza di ogni manifestazione della coscienza. La coscienza associata alle diverse sensazioni si giustifica, da un punto di vista evolutivo, soltanto se è correlata alla possibilità del soggetto di intervenire in qualche modo, di porsi come mediatore attivo tra la sollecitazione fisica e la risposta che ne consegue: se permette di superare, anche se parzialmente, il rigido determinismo stimolo-risposta.
La sensazione cosciente è il modo più primitivo di rappresentare all'essere i fattori significativi del mondo esterno e del proprio corpo in vista di una possibile azione da intraprendere.
La coscienza umana
Portando il discorso specificatamente sull'uomo, sappiamo che questi è ordinariamente consapevole non solo di dati sensoriali e percettivi, ma anche di altri contenuti, non riconducibili alla sfera delle informazioni raccolte dagli organi di senso. Si considerino, ad esempio, i sentimenti, le emozioni, i desideri, i prodotti del pensiero, come pure il senso di identità personale che ci accompagna passo passo durante l'intera vita.
Ognuno di noi può rendersi conto, in un dato istante, di amare una data persona, di essere felice, di avere appetito, o anche di sentirsi particolarmente annoiato o depresso. Nessuno di questi "stati d'animo" è assimilabile, neppure in senso lato, a delle percezioni, poiché essi non vengono colti tramite gli ordinari canali sensoriali, riferendosi non a eventi esterni, bensì alla situazione interna del soggetto, all'essere stesso.
Per quanto riguarda il dominio del pensiero e delle attività mentali in genere, sembrerebbe che i relativi contenuti debbano essere necessariamente presenti al soggetto. Se io penso a qualcosa, è evidente che sono cosciente di questo qualcosa, cioè che la mia attenzione è rivolta ad esso, che esso è presente a me stesso. Anche richiamare alla mente un ricordo significa riportare questo ricordo alla luce della coscienza.
I processi del pensiero, invece, rimangono sostanzialmente inconsapevoli al soggetto che li pone in atto, anche se è possibile, ricostruire a posteriori tali processi, mediante un procedimento di riflessione razionale che si pone a un meta-livello superiore rispetto ai processi stessi. E che dire delle intuizioni, i cui prodotti finali ci colgono spesso all'improvviso con l'impeto di una folgorazione? Può capitare, infatti, che mentre siamo assorti in tutt'altra occupazione, compaia ad un tratto nella nostra mente la soluzione di un problema su cui ci eravamo precedentemente affannati a lungo e senza esito. Ciò suggerisce l'esistenza di processi di pensiero - per così dire - sotterranei, rispetto alla sfera della consapevolezza. Processi che, operando non necessariamente secondo gli schemi del pensiero razionale, cosciente, riescono talvolta a raggiungere traguardi posti al di là delle possibilità di quest'ultimo. Essi non appartengono alla coscienza, sfuggono al controllo della volontà, operano a nostra insaputa, magari in contemporanea agli ordinari processi di pensiero. Anzi, sembra quasi una regola il loro attivarsi quando la nostra attenzione è rivolta altrove.
Anche il pensiero dovrebbe, forse, essere immaginato come un'attività che si svolge, in parallelo, su più livelli, corrispondenti a stati diversi di consapevolezza. Diversi processi di pensiero attivi nello stesso tempo, magari senza relazione tra loro, a partire da quello situato al centro della nostra attenzione e della nostra coscienza. Si passerebbe così, man mano che ci si allontana da tale centro, a forme di pensiero sempre meno consapevoli, che sfumano nelle emozioni, nei sentimenti, in quelle forme evanescenti, spesso a-razionali, che stanno alla base delle intuizioni.
Il mistero dell'Io
Rimane, infine, l'aspetto probabilmente più complesso e nello stesso più sfuggente della coscienza umana, vale a dire la coscienza di sé, il senso della propria identità. Incontriamo, in genere, una gran difficoltà a definire tali termini, perché essi appaiono profondamente diversi a seconda della prospettiva da cui vengono considerati. Non per niente, secoli di riflessioni e dispute da parte dei filosofi sul problema della coscienza, dell'Io, del loro rapporto con la mente, hanno prodotto risultati tutt'altro che soddisfacenti.
Ciò che cogliamo immediatamente nella coscienza, al di là e prima ancora di qualsiasi considerazione razionale, è il senso della nostra identità personale, che si riassume e si condensa nella parola "Io". L'Io nasce, si sviluppa e si definisce a se stesso nei suoi contorni in seguito all'interazione con altre entità simili. Il bambino, prima dei due anni parla di sé in terza persona ("Marco ha fame", "Marco vuole giocare",...) perché non ha ancora sviluppato il senso dell'Io.
L'Io rappresenta il centro del nostro essere, il principio cardine per mezzo del quale distinguiamo noi stessi dagli oggetti che popolano il mondo esterno e soprattutto dai diversi "Tu" con cui entriamo in relazione: si presenta come l'aspetto più familiare di noi stessi. Anzi, a ben guardare, esso coincide con ciò che chiamiamo "noi stessi". Tutto il resto, incluso il nostro stesso corpo, si presenta all'Io che osserva come esterno, come "altro" rispetto al Sé (1). Questa situazione è ben rispecchiata nel linguaggio ordinario. Diciamo, infatti: "le mie gambe", "il mio naso", e persino "il mio cervello", "la mia mente", usando il possessivo mio, trattando cioè queste parti come appartenenti all'Io, ma non costituenti l'Io stesso. L'Io appare al soggetto cosciente che cerca di osservarlo come un'entità ben misteriosa. Presente, centrale, rispetto all'individuo a cui fa riferimento, e nello stesso tempo indefinibile, evanescente, qualora si cerchi di dare ad esso una precisa collocazione spaziale.
All'Io non può essere attribuita una sede determinata all'interno del nostro corpo, anche se, in qualche modo, sentiamo che esso non può trovarsi all'esterno. Dov'è dunque l'Io?
Mi propongo di tentare una risposta a questa domanda più avanti. Non prima di aver preso in esame il concetto di autocoscienza, inteso nel senso di "coscienza che riflette su di sé".
Le contraddizioni dell'autocoscienza
La coscienza, nel suo significato di "presenza al soggetto", è inconoscibile di per sé, cioè senza riferimenti a oggetti: lo diviene soltanto in rapporto ai propri contenuti. Allo stesso modo, un raggio di luce che viaggia nello spazio non si rivela al nostro occhio finché non incontra un ostacolo che lo rifletta. Quando ciò si verifica, noi vediamo l'oggetto illuminato. La nostra percezione dell'oggetto dipende dalla luce che lo colpisce, ma la luce, a sua volta, si rende manifesta solo perché l'ostacolo la rinvia verso di noi.
Si ha sempre coscienza di qualcosa, in relazione a un ente che "è cosciente di", ossia che funga da soggetto attivo nel processo. "Mi rendo conto", "sono consapevole", "ho preso coscienza", costituiscono altrettante proposizioni che necessitano di un complemento, di ulteriori informazioni, per acquistare un significato compiuto, e rimangono indeterminate se esso manca. Come non è sufficiente dire "io vedo", "io sento", se poi non viene precisato ciò che i corrispondenti organi di senso stiano percependo. Da queste osservazioni non può non emergere che quella che noi chiamiamo "coscienza" andrebbe considerata non come un oggetto, quanto piuttosto una "modalità", la più primitiva e immediata attraverso cui il mondo si rende accessibile all'individuo. Noi non percepiamo la coscienza, vale a dire l'ente, o apparato preposto alla funzione di renderci disponibili i vari oggetti di cui diveniamo consapevoli. Noi cogliamo solo i contenuti della coscienza, mentre le strutture e i processi mediante i quali tali contenuti si rendono presenti rimangono al di fuori della nostra portata.
Non esiste alcuna distinzione, a livello linguistico, tra questi due diversi aspetti della coscienza probabilmente perché finora non si è prestata sufficiente attenzione alla loro diversa natura. L'individuo tende inevitabilmente a identificare i due enti. I contenuti della coscienza si presentano infatti semplicemente come dati nell'orizzonte d'attenzione del soggetto. Loro caratteristica distintiva è l'immediatezza, il porsi come l'essenza stessa della realtà. La coscienza come apparato, invece, si sottrae completamente e irrimediabilmente alla consapevolezza del soggetto. La sua esistenza non può essere verificata direttamente dall'individuo di cui essa è parte, bensì supposta, dedotta dai contenuti che essa rende disponibili. Ma, se è così, cosa dobbiamo intendere con i termini "autocoscienza", "autoconsapevolezza", "coscienza di sé", che sembrerebbero invece presupporre una capacità di autoriflessione da parte della coscienza?
Una coscienza "autoconsapevole", intesa come ente attivo e non come contenuto, dovrebbe essere in grado di rivolgersi verso se stessa, di cogliersi come un vero e proprio oggetto. Essa dovrebbe porsi contemporaneamente sia nella posizione di soggetto osservatore che in quella di oggetto osservato: situazione che conduce a serie difficoltà di ordine logico e metodologico.
Lo stesso termine "autocoscienza" si rivela contraddittorio in sé, a un esame appena un po' approfondito. A ben guardare, infatti, esso implica, da una parte, la totale coincidenza tra soggetto e oggetto. D'altra parte, una qualsiasi modalità di osservazione o di conoscenza (l'attività della coscienza può essere assimilata ad esse) presuppone uno sfasamento, una non-identità tra i due enti.
Quando la coscienza si volge a osservare se stessa, dovrebbe nello stesso tempo allontanarsi, distaccarsi da sé, come richiede - appunto - l'azione dell'osservare. Nel caso specifico, però, questo non può avvenire poiché la coscienza si propone essa stessa come oggetto d'osservazione: deve essere sé, perché altrimenti l'osservazione sarebbe diretta verso qualcosa di altro rispetto a sé; nello stesso tempo non può esserlo, poiché osservare implica necessariamente un porsi di fronte all"oggetto, quindi una divisione, un distacco da esso. Ma ammettiamo, per pura ipotesi, che il problema della divisione soggetto-oggetto possa in qualche modo essere aggirato o superato. Cosa accadrebbe alla coscienza qualora essa concentrasse la propria attenzione - riflessivamente - su se stessa ?
Consideriamo il caso, più semplice, di coscienza inizialmente priva di contenuti che si riferiscano al mondo esterno. Una coscienza rivolta a se stessa non potrebbe fare a meno di cogliere contemporaneamente anche il proprio affacciarsi a se stessa. Infatti, se la coscienza deve rimanere una, pur nel suo doppio ruolo di osservatore e di oggetto osservato, qualsiasi cosa accada all'oggetto dell'osservazione, dovrebbe presentarsi immediatamente anche al soggetto della medesima, e viceversa. La coscienza dovrebbe dunque cogliere se stessa nel proprio osservarsi, in quanto tale azione costituirebbe, comunque un contenuto. Detta consapevolezza dovrebbe, a sua volta, diventar oggetto di osservazione, cioè di consapevolezza, poiché costituirebbe un ulteriore contenuto della medesima coscienza, anche se collocato a un livello diverso.
E' lecito a questo punto considerare chiuso il circolo? No, evidentemente. Poiché anche il nuovo stato di consapevolezza non potrebbe in alcun modo sottrarsi alla necessità di venir sottoposto all'attenzione di una coscienza che volesse essere veramente autoconsapevole. Com'è facile comprendere, la successione soggetto-oggetto non può interrompersi qui, né a qualsiasi stadio successivo; essa è condannata a proseguire indefinitamente - una catena che si ripete a livelli sempre più alti: l'osservatore-che-si-osserva, l'osservatore-che-osserva-l'osservatore-intento-a-osservarsi, ecc. Da questo circolo vizioso non c'è scampo. E, fermarsi in un punto qualsiasi della infinita sequenza osservatore-osservato, farebbe precipitare l'intero processo nell'indeterminazione. In tal caso, si priverebbe un oggetto situato a un dato livello, del soggetto che immediatamente lo precede nella sequenza; oppure rimarrebbe senza il relativo oggetto un soggetto osservatore collocato nella sequenza stessa.
Sono state proposte svariate immagini, o analogie, per illustrare la condizione in cui viene a trovarsi la coscienza, o comunque un ente osservatore, che rivolge la propria attenzione su di sé. Una delle esemplificazioni più suggestive mi sembra quella esposta da D. R. Hofstadter nel volume Godel, Escher, Bach (2). Egli osserva che, per certi versi, l'auto-osservazione può essere paragonata alla situazione di una telecamera posta di fronte a uno schermo televisivo a cui essa è collegata. Tale disposizione da luogo sullo schermo a una sequenza di schermi sempre più piccoli, posti uno dentro l'altro. Hofstadter si sofferma a descrivere cosa succede alle immagini quando si ruota la telecamera intorno all'asse dell'obiettivo, o se questa viene inclinata leggermente di lato. Tutti effetti legati all'autoriferimento, i quali possono diventare talmente complessi da nascondere il fatto di essere stati prodotti mediante una "videoretroazione". (3)
Del resto, non c'è neppure bisogno di scomodare la tecnica elettronica per sperimentare qualcosa di molto simile: basta entrare nella bottega di un barbiere, dove di solito sono sistemati degli specchi, su due pareti opposte, uno di fronte all'altro. Ponendosi tra gli specchi, si può osservare una serie di immagini di grandezza decrescente, che si richiamano l'un l'altra, la cui successione si perde all'interno degli specchi stessi. Io guardo me stesso riflesso nello specchio, intento a guardare me stesso nello specchio, intento, a sua volta, a guardare il relativo me stesso nello specchio riflesso dal primo specchio... E così via, fino a dove la capacità di discriminazione visiva è in grado di giungere.
Si tratta di paragoni che riescono a rendere abbastanza chiaramente, in maniera figurativa, le difficoltà insite nel concetto di autocoscienza. Tuttavia, a mio parere, non è del tutto fuori luogo sollevare qualche dubbio circa la effettiva corrispondenza di tali paragoni con la situazione reale della coscienza che si rivolge verso se stessa. Le difficoltà che incontriamo a immaginarci, a spiegare, la coscienza autocosciente, piuttosto che costituire le spie di problemi concretamente esistenti, non potrebbero invece avere origine da una maniera inadeguata di affrontare l'intera questione?
Dopotutto, abbiamo il fatto - innegabile - che l'autoconsapevolezza, ossia la capacità di guardare dentro se stessi, viene vissuta da ciascun individuo come una possibilità concreta e reale. Noi siamo capaci di osservarci, di conoscerci, naturalmente entro certi limiti. Limiti, del resto, presenti anche in qualsiasi altro tipo di processo osservativo. Ad esempio, la nostra vista non ci consente di percepire oggetti non illuminati, o troppo piccoli, o troppo lontani. Senza contare, poi, i diversi fenomeni di illusione ottica, studiati in particolare dalla psicologia della percezione, per i quali noi siamo portati a vedere certe cose diverse da come in realtà sono.
Per quanto riguarda il regresso all'infinito, implicito nell'auto-osservazione, esso non sembra verificarsi nella pratica introspettiva messa in atto da ciascuno di noi. Possiamo incontrare difficoltà di varia natura a scendere nei meandri del nostro essere, ma non ci capita mai di sentirci prigionieri del circolo vizioso osservatore-osservato precedentemente descritto. Come avviene che l'Io che indirizza su di sé la propria attenzione non si trova automaticamente ed inevitabilmente ad osservare se stesso nell'atto di osservarsi? Un Io a sua volta oggetto di osservazione da parte dell'Io medesimo...?
Credo che la risposta a tali domande vada ricercata impostando in maniera sostanzialmente diversa il complesso problema dell'autocoscienza. Parlare di autoconsapevolezza potrebbe anche non voler indicare una vera riflessione su di sé, un porsi dell'ente osservatore nella contemporanea condizione di un qualsiasi oggetto appartenente al mondo esterno. L'autoconsapevolezza potrebbe anche essere un'illusione, nel senso che la coscienza non si rivolge veramente a se stessa, ma a qualcos'altro.
La coscienza e lo specchio
Quando mi guardo in uno specchio, posso davvero affermare che sto osservando me stesso? In realtà, quel che vedo è soltanto un'immagine riflessa. Questa, in ogni caso, riproduce fedelmente soltanto il mio aspetto esteriore, ignorando ogni altra caratteristica che non si presti ad essere percepita visivamente.
Non c'è un essere umano là, nello specchio. Non ci sono Io.
La prova che l'immagine è altra cosa da me sta nel fatto che, pur trovandosi in un altro luogo rispetto a quello occupato da me, pur tenendo gli occhi aperti come li tengo io, essa non mi consente di vedere il mondo da quel punto di osservazione. Se faccio in modo che guardi verso di me, non riesco a vedermi con i suoi occhi. Quell'immagine non vede, non sente e non percepisce nulla di nulla, poiché non è viva, non è reale allo stesso modo in cui lo sono io. Analogamente, se incarico qualcuno di filmare la mia persona e i miei movimenti, registrando magari anche parole e suoni, successivamente sarò in grado di far rivivere il tutto. Anche questa sarà, tuttavia, una rappresentazione di me stesso - una rappresentazione forse molto fedele dal punto di vista visivo e sonoro - che però non corrisponde al mio essere reale. Qui l'immagine, non solo è spostata nello spazio in rapporto alla mia persona, ma anche collocata indietro nel tempo rispetto al mio esistere attuale. Quell'immagine non sono io. Non riesco ad essere cosciente di alcun oggetto percepibile dalla posizione spazio-temporale in cui essa si trova. Se questa ride perché è felice, io non provo la sua gioia; se inciampa allo scalino e cade a terra, non provo alcun dolore.
Si tratta, dunque, soltanto di rappresentazioni, che esistono al di fuori, separate da me; ed è per questo che riesco a osservarle come un qualsiasi altro oggetto del mondo esterno. Esse non danno luogo al fenomeno dell'autoriflessione poiché, appunto, sono altra cosa rispetto a me stesso.
Tornando al problema della coscienza, la mia proposta è di considerare il cosiddetto fenomeno dell'auto-osservazione in maniera sostanzialmente analoga. Qui non abbiamo a che fare con rappresentazioni visive o sonore, bensì con immagini mentali che costruiamo, spesso a nostra insaputa, nel corso dell'esistenza. Cosa accade quando un individuo cerca di guardare dentro di sé, introspettivamente ? Egli indirizza su di sé la propria attenzione, interroga la propria coscienza. Ma cosa trova? Non può incontrare se stesso nella sua realtà più intima, poiché non può dividersi in due parti, delle quali una sia l'osservatore, l'altra ciò che viene osservato. Necessariamente, lo "sguardo interiore" deve rivolgersi verso qualcos'altro: a delle immagini, a rappresentazioni, costruite in precedenza. Tali immagini si formano a poco a poco, divenendo oggetti tra gli oggetti, in seguito alle nostre interazioni col mondo esterno. Quella che noi chiamiamo autocoscienza, in definitiva, probabilmente non è una vera coscienza di sé, nel pieno senso del termine, bensì una coscienza rivolta a delle rappresentazioni del sé, già esistenti e scambiate per il sé autentico, che, in quanto tale, non può essere conosciuto direttamente.
Del resto, noi possiamo indirizzare l'attenzione non solo su ciò che crediamo di essere ora, ossia su rappresentazioni che si riferiscono al nostro stato attuale, ma anche su immagini relative al nostro passato: su come eravamo in tempi precedenti. Anche in questo caso facciamo uso di rappresentazioni, conservate nella nostra memoria. Addirittura, siamo in grado di raffigurarci come saremo o, meglio, come immaginiamo di essere in un futuro più o meno lontano. Questa capacità di rappresentarci ciò che non è più o ciò che non è ancora (o anche, che potrebbe essere), la quale si basa indubbiamente sugli stessi meccanismi mentali dell'osservazione introspettiva rivolta al presente, rivela la vera natura dell'attitudine auto-riflessiva della coscienza: si tratta di una facoltà che non si rivolge al soggetto reale posto come oggetto osservato, bensì a immagini costruite da questo.
L'Io come rappresentazione
In tale prospettiva, è possibile considerare in un'ottica sostanzialmente diversa il problema della collocazione spaziale dell'Io. La domanda "dov'è l'Io?" viene facilmente riconosciuta come un falso problema. L'Io non è un'entità fisica come un braccio, una gamba, il cuore o il cervello. Non esiste all'interno della scatola cranica, né in nessuna altra parte del corpo, un sistema funzionale a cui possa essere fatto corrispondere ciò che noi percepiamo, con coinvolgimento totale, come Io. L'Io è un'immagine. E' la rappresentazione di noi stessi che, in un certo senso, riassume in sé tutte le nostre caratteristiche fisiche e psichiche.
L'Io ci appare tanto familiare perché costituisce la personificazione davanti ai nostri occhi interni del nostro esistere come esseri unici, irripetibili, distinti dagli altri oggetti e persone che ci circondano. La non consapevolezza del processo di produzione delle immagini è una condizione necessaria del meccanismo dell'autocoscienza. Non appena il soggetto diviene consapevole che una data rappresentazione di sé non corrisponde alla realtà ma è soltanto un'immagine illusoria, significa che ha assunto (inconsciamente) una nuova immagine come riferimento. Essa sostituirà la precedente nella sua pretesa di presentarsi come il vero sé dell'individuo. La presa di coscienza dell'inadeguatezza di una data rappresentazione del sé avviene soltanto e necessariamente in rapporto a una nuova rappresentazione, che diventa a sua volta inconoscibile come tale, essendo scambiata dal soggetto come il sé autentico. Così, in definitiva, siamo costretti a riconoscere che ogni individuo non può essere presente a se stesso in altra forma che nelle proprie rappresentazioni.
Noi ci immedesimiamo nelle nostre rappresentazioni. Noi siamo le nostre rappresentazioni. Non è possibile altra conoscenza di sé, riflessivamente intesa, al di fuori delle costruzioni elaborate più o meno inconsapevolmente dall'individuo. Finché rimaniamo con l'attenzione rivolta al momento presente della nostra esistenza, finché viviamo senza porci domande in merito, senza osservarci vivere, noi siamo un tutt'uno con la nostra esperienza immediata. Esistiamo, ma non abbiamo coscienza di esistere, nel senso di poter dire: "io sono qui, ora, che sento, vedo, parlo, sono felice, soffro, mi preoccupo...". Naturalmente conserviamo un coscienza - per così dire - di primo livello su ciò che accade dentro e fuori di noi, una coscienza che si basa sulle sensazioni, sugli stati emotivi, sulle percezioni, e si identifica interamente con essi. Ciò che manca è la coscienza di "secondo livello", quella che permette di riflettere sull'essere stesso, consentendo un distacco ideale dal fluire incessante dei nostri stati interni e degli stimoli che ci pervengono tramite i sensi.
Per osservare, per parlare di qualcosa, è necessario separarsi da questo qualcosa. Ecco quindi che, nel momento stesso in cui facciamo delle considerazioni, o giungiamo a conclusioni riguardo a noi stessi, non stiamo più facendo riferimento al nostro vero noi stessi, bensì a delle costruzioni ideali, a delle rappresentazioni, che si collocano necessariamente fuori dell'essere.
La rappresentazione, il distacco dalla realtà intima dell'individuo è la conseguenza inevitabile del modo di operare del pensiero. L'essere deve allontanarsi da se stesso per potersi osservare. Allontanarsi vuol dire porre "qualche altra cosa" al posto del sé e alla quale rivolgere l'attenzione: qualcosa che lo rappresenti e ne riproduca le caratteristiche salienti. Nel pensiero tutto è rappresentazione, immagine simbolica che costruisce, o meglio, che "crea" certe relazioni tra gli oggetti. Anche il nostro essere, anche gli attributi che ognuno di noi assegna a se stesso, si trovano nel pensiero sotto forma di rappresentazioni, di immagini ideali. Siccome non è possibile un'osservazione più "diretta", ossia che avvenga in maniera veramente riflessiva, il soggetto non dispone di alcun termine di paragone per smascherare questa "presenza a se stesso" fittizia. Egli soggiace all'illusione di guardare realmente dentro di sé.
Dopotutto, quand'è che una data rappresentazione può venir riconosciuta come tale? Solo quando essa si dimostra inadeguata, quando ci rendiamo conto che la "realtà del nostro essere" è un'altra. Visto, però, che l'essere reale è irraggiungibile introspettivamente, questa scoperta può essere effettuata soltanto in riferimento a un'altra rappresentazione di noi stessi, che, a sua volta, non sarà colta nella sua vera natura - di rappresentazione, appunto - bensì come realtà autentica. Detta rappresentazione prenderà il posto della precedente nella sua pretesa di presentarsi come il nostro sé reale.
Autocoscienza e psicoanalisi
I problemi derivanti dall'autoriferimento permettono di inquadrare sotto una nuova luce le difficoltà insite nel procedimento psicoanalitico. In fase di analisi, il paziente viene a trovarsi nel doppio ruolo di osservatore e di oggetto di osservazione. Egli prende in esame se stesso, rivolge lo sguardo interiore alla ricerca di aspetti e di contenuti sepolti nella propria psiche. Ma egli usa il pensiero: "riflette" su di sé, fa considerazioni; non osserva veramente il proprio mondo intimo. Né potrebbe farlo in alcun modo poiché, come abbiamo visto, l'auto-osservazione è un'operazione del tutto illusoria. Il paziente può solo prendere in esame ciò che crede di essere: le proprie immagini, le proprie rappresentazioni, i suoi ricordi. Quando afferma: "io sono così", in realtà intende dire: "io penso di essere così", ovvero "questa è l'idea che ho di me stesso". Si capisce, allora, per qual motivo non è sufficiente che il paziente comprenda in maniera intellettuale i fattori che stanno all'origine dei propri disturbi. Così facendo, infatti, egli non ottiene altro che prendere in esame le proprie rappresentazioni, la propria immagine di sé, ovvero costruire nuove rappresentazioni che vanno ad affiancarsi alle precedenti. Esse sono comunque altra cosa rispetto all'essere e non possono toccarlo che di riflesso e in maniera del tutto marginale. Solo quando il paziente partecipa emotivamente, cioè vive su di sé, sperimentandoli in maniera concreta, certi contenuti che provocano problemi psicologici, egli riesce a distaccarsi, pur se parzialmente dalle proprie rappresentazioni. In tal caso, è l'essere stesso, nella sua realtà più piena, indipendentemente da qualsiasi considerazione intellettuale, a venir coinvolto. E ciò può permettere di entrare in contatto con certi aspetti del sé che in precedenza esistevano separati dal soggetto, ponendosi spesso in contrasto con esso.
La rappresentazione, la riflessione razionale possono comunque costituire un punto di partenza per l'analisi psicoanalitica. Ma, se il paziente vuole ottenere risultati significativi riguardo alla propria salute mentale, deve decidersi a staccarsi dalle immagini del sé per fare i conti col sé reale. Questo significa sperimentare concretamente certi contenuti rimossi dalla coscienza; significa rivivere certi episodi del passato, riandando a questi non soltanto col pensiero, ma soprattutto entrare in contatto con essi, lasciando che l'essere venga di nuovo coinvolto dalle sensazioni e dalle emozioni, anche spiacevoli, anche dolorose, che li caratterizzavano.
Secondo me, gli autori legati alle teorie psicoanalitiche classiche hanno insistito troppo poco sul ruolo attivo che l'analista dovrebbe svolgere rispetto alla necessità che il paziente abbandoni quanto prima le proprie rappresentazioni e si immerga nell'esperienza dei vissuti interiori. All'analista è richiesto di lasciar libero il paziente di decidere quale direzione dare ai propri pensieri, alle proprie fantasie, quali ricordi prendere in considerazione. Ma, per rendere più incisiva e rapida la terapia, egli dovrebbe intervenire ad ogni occasione per scoraggiare il ragionamento e le costruzioni del pensiero, spingendo il paziente a misurarsi concretamente con le proprie esperienze, rivivendole più volte con la maggiore ricchezza possibile di dettagli. Quando il paziente tende a divagare, a fare considerazioni oziose, quando parla di ciò che pensa piuttosto di ciò che prova, quando si limita a riflettere sui propri contenuti interiori piuttosto che vivere tali contenuti, forse sta tentando di sottrarsi a una situazione spiacevole che avverte confusamente al suo interno. Permettergli di continuare su questa strada, significa perdere tempo, fuggire la realtà; anche se bisogna tener presente che a volte, questa strategia dilatoria può significare semplicemente che l'analizzato non è ancora abbastanza forte per affrontare i suoi problemi.
---------------
NOTE
(1) Eccles, Affrontare la realtà, Roma, Armando, pag. 104.
(2) D. R. Hofstadter, Godel, Escher, Bach, Adelphi, Milano
(3) Op. cit.
[1986]
[ Scheda dell'autore -
Email: astrocalisi@gmail.com ]
|