Articolo su
Daniel Dennett

La prospettiva della libertà di Daniel Dennett
di Astro Calisi

Daniel Dennett ha recentemente pubblicato un'opera dove si propone di dimostrare che la libertà umana è del tutto conciliabile con la necessità espressa dalle leggi scientifiche (1). Le sue argomentazioni possono essere sintetizzate nel modo seguente.

La libertà esiste ed è una facoltà sviluppatasi negli organismi viventi nel corso della loro evoluzione. I primi esseri unicellulari erano profondamente deterministici, assai simili a vere e proprie macchine; ma via via che si facevano più complessi, aggregandosi in sistemi di cellule sempre più differenziate e specializzate, essi si affrancavano di pari passo dai vincoli deterministici, sviluppando la capacità di selezionare tra una gamma progressivamente più ampia di comportamenti (2). In questa ottica, la libertà di scelta non implica l'esistenza di una entità capace di sottrarci dalla trama causale del mondo fisico - idea pericolosamente metafisica e incompatibile con la moderna visione del mondo - ma è la capacità di un sistema altamente complesso di adottare il comportamento più conveniente di fronte alla varietà delle situazioni ambientali che incontra. Ciò significa, secondo Dennett, che la libertà è una facoltà nient'affatto misteriosa, che si sviluppa nelle specie viventi, concretizzandosi in una capacità di adattamento sempre più efficace. (3)

Solitamente la capacità di scegliere tra una certo numero di alternative utilizzando principi di valutazione precostituiti non viene considerata vera libertà. Tuttavia accrescendo enormemente il numero delle alternative disponibili, quello che a livelli relativamente semplici non era altro che un meccanismo di selezione automatico, sfocia gradualmente in un universo di possibilità talmente ampio da divenire, sotto tutti gli aspetti, libertà nel pieno senso del termine. (4)

Dennett identifica dunque la libertà con la flessibilità di comportamento, vale a dire con la capacità di reagire adeguatamente agli stimoli ambientali in rapporto all'esigenza di soddisfare bisogni biologicamente importanti. Ora, è certamente vero che un individuo che agisce in piena libertà esibisce generalmente un comportamento più plastico rispetto a quello di un individuo fortemente vincolato nei suoi movimenti e nelle sue decisioni. Non è però sempre vero il contrario: non è detto che una maggiore flessibilità e adeguatezza di comportamento implichi necessariamente una maggiore libertà. La flessibilità può essere il risultato di un sistema estremamente complesso, nel quale siano state previste tutte le possibili varianti delle situazioni da affrontare e le relative risposte da fornire. Detto sistema, avendo memorizzato al proprio interno, sotto forma di parametri di valutazione e di sequenze operative, l'intera gamma dei comportamenti da porre in atto, non può operare che in maniera completamente deterministica. I comportamenti, vista l'enorme complessità del sistema da cui deriva, possono rivelarsi largamente imprevedibili e dare per questo l'impressione di una certa autonomia o libertà. L'imprevedibilità non è tuttavia una proprietà oggettiva del sistema, essendo legata alla nostra incapacità di valutare in maniera precisa il peso da attribuire alle diverse componenti che agiscono all'interno del sistema.

La complessità come concetto esplicativo

Dennett specula abilmente sulla nostra incapacità di rappresentarci dettagliatamente la complessità per far valere la tesi secondo la quale un gran numero di eventi deterministici, purché organizzato in maniera appropriata, può dar luogo a qualcosa di completamente diverso rispetto ai processi elementari che agiscono ai vari livelli. Egli contesta precisamente l'idea che un sistema basato su unità deterministiche debba comportarsi, a sua volta, in maniera deterministica. Ma non ci fornisce neppure un argomento autenticamente scientifico (basato cioè su teorie controllabili) come da un insieme di eventi vincolati alle ordinarie leggi fisiche si possa giungere a comportamenti misteriosamente sottratti dal dominio della necessità. Ciò non deve sorprendere più di tanto, poiché il ricorso alla nozione di complessità per far fronte a un vuoto esplicativo è una scappatoia, anche se di basso profilo scientifico, di cui Dennett si è servito altre volte in passato.

In Coscienza. Che cos'è? (5), affrontando la questione di come implementare la capacità di comprensione e quindi dotare di consapevolezza un sistema computazionale, Dennett osserva che è abbastanza ovvio considerare un qualsiasi blocco di programma relativamente semplice, che esegue istruzioni assegnate, completamente privo di coscienza. Esso, infatti, non è altro che una routine che si limita a trasformare meccanicamente stringhe di simboli in altre stringhe di simboli sulla base di regole assegnate. Tuttavia, secondo Dennett, se si aggrega un gran numero di tali sottoprogrammi così da formare un enorme sistema, funzionalmente integrato, esso può sviluppare capacità autenticamente mentali, compresa la coscienza. (6)

Nell'opera La mente e le menti (7), troviamo un'argomentazione simile per spiegare la nascita e lo sviluppo di una mente negli organismi viventi. Qui Dennett ipotizza che i precursori dei più semplici esseri unicellulari siano particolari macromolecole dotate della capacità di riprodurre esemplari esattamente uguali a se stesse. Dopo alcune centinaia di milioni di anni, durante i quali queste molecole continuarono ad autoreplicarsi e a modificarsi per via di qualche inevitabile errore, comparvero i primi esseri unicellulari; questi primi organismi, incapaci di qualsiasi forma di riflessione, agivano come robot, automaticamente e inconsapevolmente. Secondo Dennett, non c'è dubbio che noi discendiamo da questi robot autoreplicanti. Non solo. Tali robot costituiscono anche le unità di cui è composto il nostro attuale corpo. Ogni cellula non è altro che un agente capace di eseguire un numero molto limitato di compiti: è priva di mente come i più elementari organismi viventi. Mettendo però insieme un numero incredibilmente alto di questi homuncoli insulsi si ottiene una persona reale, dotata di coscienza e con un'autentica mente. (8)

La strategia utilizzata da Dennett, in mancanza di argomentazioni più solide, consiste dunque nell'evocare una organizzazione talmente complessa da superare ogni possibilità di rappresentazione e quindi di indagine analitica. Quando la mente viene posta di fronte a una quantità immensa di elementi da considerare, con vincoli diversi e interazioni a vari livelli, viene colta da un senso di vertigine, non essendo in grado neppure grossolanamente di determinare i risultati globali da attendersi. Di fronte a tale stato, non è troppo difficile far passare l'idea che dalla complessità possano derivare proprietà del tutto nuove rispetto alle proprietà possedute dalle parti costituenti: del resto, detta possibilità non può essere negata con assoluta certezza.

La nozione di complessità è nata all'interno delle scienze fisiche, in seguito all'osservazione dell'esistenza di particolari fenomeni che sembrano sfuggire alle comuni leggi scientifiche. Il comportamento di questi fenomeni viene spesso definito non lineare perché piccole variazioni nei parametri che li caratterizzano possono produrre grandi effetti e, viceversa, grandi variazioni hanno, a volte, effetti trascurabili. In generale, la risultante complessiva delle interazioni degli elementi costituenti conduce a risultati scarsamente prevedibili.

Esempi di fenomeni complessi sono costituiti dagli eventi atmosferici, come i cicloni. Non c'è dubbio che questi ultimi siano costituiti da goccioline di acqua e da molecole d'aria in rapido movimento. Ognuna di queste particelle obbedisce ovviamente alle ordinarie leggi fisiche; la loro interazione da tuttavia origine a qualcosa di completamente diverso, che non può, a sua volta, venir spiegato né, tantomeno, previsto con esattezza ricorrendo alle comuni leggi del moto. Esistono molte tipologie di fenomeni complessi, da quelle più banali, come i citati fenomeni atmosferici, alle cosiddette strutture dissipative, studiate dalla termodinamica, fino a giungere ad alcuni fenomeni che si verificano a livello quantistico e che sono attualmente oggetto di attive ricerche. La loro fondamentale imprevedibilità viene spesso messa in rapporto con il concetto di proprietà emergente, che fa riferimento alla nascita di caratteristiche e comportamenti del tutto nuovi e non spiegabili sulla base delle leggi sottostanti. Le proprietà emergenti sono viste in genere come il risultato di nuove forme di organizzazione della materia, fondate su principi d'ordine superiori e irriducibili ai livelli organizzativi inferiori. Il riferimento ad esse, come più in generale il riferimento alla complessità, tuttavia, non si propone in genere intenti esplicativi, bensì soltanto classificatori, nel senso di attribuzione a determinate categorie di fenomeni che presentano caratteristiche comuni. Tant'è vero che quando si vuole render conto di tali fenomeni si ricorre a specifiche formulazioni che ne descrivono il comportamento (di solito in maniera largamente approssimativa): per spiegare gli eventi atmosferici come i cicloni, per esempio, ci serviamo delle leggi della meteorologia, che riescono, entro certi limiti, anche a prevederne l'evoluzione.

E' accaduto però che, quando la nozione di complessità (con annesse proprietà emergenti) è stata traslata dal campo della fisica a quello dei fenomeni biologici, e più ancora a quelli che riguardano il mentale, essa abbia inavvertitamente acquisito una valenza esplicativa "di per sé". Il semplice presentare la mente come un fenomeno complesso (o magari "emergente") viene spesso ritenuto come un risultato di grande rilievo conoscitivo.

In realtà, essendo privo di valore esplicativo intrinseco, il riferimento alla complessità si rivela essere niente più che un sostituto moderno, inevitabilmente metafisico, che viene a prendere il posto degli obsoleti concetti del passato, legati a entità immateriali o a non meglio precisate spinte evolutive.

La libertà, gli automatismi e la coscienza

Dennett pretende dunque di risolvere la fondamentale inconciliabilità tra la libertà dell'uomo e la necessità espressa dalle leggi fisiche semplicemente ridefinendo il concetto di libertà, riducendolo cioè alla capacità degli organismi di adattarsi efficacemente all'ambiente: in tale ottica, la libertà non è altro che una grande flessibilità di comportamento che consente di rispondere in maniera appropriata a una ampia gamma di situazioni. Questa concezione appare pienamente coerente con la prospettiva evoluzionistica, ma in realtà non offre una vera soluzione al problema della libertà, poiché, in sostanza, si esaurisce nel tentativo di dimostrare che la libertà è "altra cosa" rispetto all'idea tradizionale che le persone hanno di essa. Si è raggiunta, sì, una compatibilità tra la libertà e il modello delle leggi fisiche, ma a prezzo di un radicale stravolgimento dell'oggetto iniziale, costituito dalla libertà come si presenta alla nostra esperienza immediata.

Si può ovviamente mettere in dubbio che i vissuti soggettivi costituiscano una base affidabile per stabilire cosa debba intendersi per libertà. Ma tale scelta dovrebbe essere sostenuta da qualcosa di più che la semplice esigenza di rimanere coerenti con i modelli esplicativi di cui disponiamo. Eppure è esattamente questa la strada seguita da Dennett. Fervente sostenitore dell'analogia funzionale tra mente e computer, egli non ha mai mostrato grande considerazione per l'esperienza cosciente, approfittando anzi di ogni occasione per metterne in risalto i limiti conoscitivi e per minimizzarne l'importanza (9). Non c'è quindi da meravigliarsi se la sua concezione non riconosce alcuna importanza all'idea di libertà così come essa emerge dal vissuto di ogni individuo. Meno ancora ci si può aspettare che egli prenda, anche solo lontanamente, in considerazione la possibilità di una qualche connessione tra l'esperienza soggettiva e l'espressione della libertà, ovvero tra la consapevolezza e l'autonomia della volontà. Per dirla con maggior chiarezza, Dennett non affronta mai esplicitamente la questione se sia o meno possibile una libertà in assenza della coscienza.

Ma perché dovremmo interrogarci sulla possibilità che esista un legame significativo tra l'autonomia personale e la coscienza?

La nostra intima convinzione di essere liberi, pur se con inevitabili condizionamenti e limitazioni, ha origine dalla nostra esperienza cosciente. Noi non avremmo alcuna idea della libertà, se non la sperimentassimo in maniera diretta e fortemente coinvolgente. Non solo la concezione di libertà deriva dall'esperienza che ne abbiamo, ma la stessa libertà è inconcepibile al di fuori della consapevolezza. La libertà che ci presenta la nostra esperienza, infatti, non è mai impersonale - espressione di puri automatismi - ma appare come una proprietà caratteristica di agenti provvisti di relativa autonomia: ciò è da intendersi come capacità di determinare le proprie scelte e le proprie azioni in maniera indipendente (o almeno parzialmente indipendente) rispetto alle condizioni esistenti a un dato istante. La relativa indipendenza da vincoli di natura deterministica e la capacità di essere causa delle proprie azioni si pongono quindi come i presupposti basilari di ogni libertà; e ciò sembra potersi realizzare solo in presenza della consapevolezza. Si tratta di una evidenza talmente potente che persino chi è convinto che la libertà sia del tutto illusoria, non può fare a meno di comportarsi o dar prova di atteggiamenti che contrastino con tale convinzione. La stessa organizzazione della società, con le sue norme giuridiche e le consuetudini che sono alla base delle relazioni tra gli individui, si presenta profondamente intrisa dell'idea che la coscienza costituisca in qualche modo una condizione necessaria per la libertà. Se analizziamo le diverse circostanze in cui un individuo viene normalmente ritenuto libero, e quindi responsabile delle proprie azioni, vediamo infatti che l'essere coscienti, assieme all'assenza di costrizioni fisiche, si considerano le condizioni basilari per l'esercizio di qualsiasi libertà. Di solito, non si reputa libero un sonnambulo che cammina con grande perizia su uno stretto cornicione, né lo riteniamo responsabile se, nel suo stato, egli compie azioni che arrechino danno agli altri. Le sue azioni sono involontarie e inconsapevoli: sono il risultato di meccanismi automatici, anche se molto complessi e non di rado capaci di offrire risposte adeguate alla situazione contingente.

C'è tuttavia da dubitare che argomentazioni del genere possano minimamente scalfire le granitiche certezze di Dennett. Abbiamo quindi bisogno di qualcosa di ben più solido per corroborare l'ipotesi della strettissima relazione tra la coscienza e l'autonomia individuale. Non possiamo naturalmente pretendere di produrre prove in senso rigorosamente scientifico, poiché la coscienza non può essere osservata con metodi oggettivi. Possiamo però tentare di mettere in relazione l'attivarsi della coscienza con le caratteristiche delle azioni poste in atto, nella considerazione che solo un numero piuttosto ristretto di attività vengono effettuate consapevolmente, mentre la maggior parte di esse si svolgono in maniera automatica, al di fuori del controllo cosciente. Tra queste ultime non ci sono soltanto i complessi processi interni diretti al mantenimento dell'equilibrio omeostatico dell'organismo, ma anche molte altre attività, eseguite inizialmente in maniera cosciente, ma in seguito sempre più automatiche e inconsapevoli.

Immaginiamo un operaio addetto alla catena di montaggio: il suo compito è quello di prendere una vite e il relativo dado da due distinti contenitori, di inserire la vite in un determinato foro e di stringere il dado con una apposita chiave. E' presumibile che nella fase iniziale l'operaio debba prestare una certa attenzione - attenzione cosciente - alle diverse fasi dell'operazione. Col passare del tempo, detta operazione diverrà sempre più automatica, così che, da un certo momento in poi, l'addetto possa eseguirla perfettamente anche pensando ad altro, o magari chiacchierando con un collega. Vediamo qui che la coscienza sembra essere necessaria soltanto nella fase di apprendimento dell'operazione, quando si tratta di scegliere, tra diverse modalità operative, quelle che consentono di raggiungere i migliori risultati con il minor impiego di tempo e fatica. Una volta che l'intera sequenza di gesti elementari sia stata ottimizzata, essa può procedere automaticamente, senza il coinvolgimento della coscienza e quindi della volontà.

Supponiamo ora che, nel bel mezzo del lavoro, effettuato dal nostro operaio in maniera meccanica, si verifichi un qualche inconveniente: le dita potrebbero imbattersi in un dado di dimensioni diverse rispetto a quelle regolamentari, oppure la filettatura dello stesso potrebbe rivelarsi incompatibile con quella della vite, o ancora, il bullone potrebbe sfuggire di mano e finire sotto uno dei contenitori. In base alla nostra esperienza personale, confortata da un gran numero di casi passati, possiamo essere pressoché certi che una tale circostanza richiamerebbe prepotentemente la coscienza, perché la nuova situazione non si presta ad essere affrontata tramite la sequenza di operazioni elementari che, di solito, viene posta in atto automaticamente, ma prospetta la necessità di una decisione relativa al modo più opportuno di procedere. Può darsi che ciò comporti semplicemente l'adozione di un'altra sequenza automatica, sviluppata in seguito a precedenti ripetizioni di inconvenienti strettamente affini. Tuttavia, salvo casi molto elementari, è da escludere che tale sequenza possa essere intrapresa in maniera del tutto meccanica, senza coinvolgere la coscienza.

Possiamo rappresentarci innumerevoli esempi come quello descritto, traendoli direttamente dalla nostra esperienza di tutti i giorni. Essi sembrano indicare una conclusione ben precisa, e cioè che l'attivarsi della coscienza sia da porre in rapporto col presentarsi del nuovo, con l'imprevisto, con tutto ciò che viene a interrompere una sequenza di operazioni talmente familiare da poter essere svolta in maniera del tutto inconsapevole. La coscienza sembrerebbe, in altre parole, introdurre una qualche forma di distacco, di indipendenza rispetto a quanto appartiene all'abitudine, alla routine, ai meccanismi appresi tramite la ripetizione. Ma ciò è precisamente quello che ci suggerisce la nostra intuizione, secondo la quale l'essenza della libertà starebbe nel suo non dipendere interamente da condizioni o cause precedenti, bensì nel suo essere espressione di uno specifico agente che si pone egli stesso come condizione originaria delle proprie scelte e delle proprie azioni.

Ovviamente, il tentativo di dimostrare la stretta relazione che la coscienza intrattiene con la libertà non costituisce una soluzione al problema del libero arbitrio. Le considerazioni esposte sono tuttavia utili per ricondurre la riflessione nei suoi termini più autentici, evidenziando nello stesso tempo la pochezza e l'artificiosità di proposte come quella avanzata da Daniel Dennett. Le false soluzioni, attuate mediante una indebita modificazione dei termini dei problemi originari, sono dannose all'avanzamento della conoscenza umana, poiché inducono una sorta di "sazietà epistemica", che attenua le motivazioni a cercare in nuove direzioni. D'altra parte, aver posto in primo piano il legame indissolubile che sembra esistere tra libertà e coscienza, può suggerire nuove situazioni sperimentali capaci di sviluppi impensati per la riflessione teorica. Per esempio, con le nuove tecniche di indagine neurologica oggi disponibili, non dovrebbe essere troppo difficile rilevare delle differenze significative nell'attivazione di alcune aree cerebrali quando determinate operazioni si svolgono in maniera automatica e quando invece esse vengono effettuate coscientemente, oppure la fase di apprendimento di un dato compito e la fase in cui lo stesso compito viene eseguito, al di fuori dell'attenzione coscinte. Una volta individuate le zone nervose implicate nei diversi casi, si potrebbero confrontare le relative differenze, sia in termini di organizzazione neuronale, sia in termini di struttura interna dei neuroni costituenti, ricavandone utili indicazioni per impostare ulteriori ricerche... Non è detto che tale approccio possa portare a risultati significativi sulla comprensione del ruolo svolto dalla coscienza nella nostra vita. Può darsi addirittura che esso finisca per rivelarsi un vicolo cieco. Ma vale comunque la pena esplorare fino in fondo tale ipotesi poiché, persino dai fallimenti, la scienza trae spesso utili indicazioni per giungere a nuove ipotesi sulla realtà del mondo che ci circonda e su noi stessi.

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NOTE
(1) Daniel Dennett, L'evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano, 2004
(2) Op. cit., pagg. 2-5 e pagg. 68-9
(3) Op. cit., pag. 18
(4) Op. cit., capp. I e II.
(5) Daniel Dennett, Coscienza. Che cos'è?, Rizzoli, Milano, 1993
(6) Op. cit., pagg. 482-9
(7) Daniel Dennett, La mente e le menti, Rizzoli, Milano, 2000
(8) Op. cit., pagg. 31-8
(9) Cfr. Daniel Dennett, "Quainare i qualia", in Armando De Palma - Germana Pareti (a cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pagg. 189-233, nel quale Dennett cerca di dimostrare che le esperienze coscienti costituiscono una base del tutto inaffidabile per sapere cosa avviene dentro di noi. Del resto, non è certo una forzatura affermare che uno dei presupposti portanti, anche se mai espressi in maniera esplicita, della poderosa opera Coscienza. Che cos'è? sia costituito dall'idea che la coscienza è assolutamente irrilevante ai fini del comportamento degli esseri viventi.

[ Scheda dell'autore - Email: astrocalisi@gmail.com ]


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